“Non chiedo nulla. La sola cosa che desidero è che una di queste mattine, mentre i miei occhi sono ancora chiusi, il mondo intero cambi”
(Yukio Mishima)
Assieme al fedele Masakatsu Morita, il 25 novembre di quarant’anni fa Yukio Mishima poneva volontariamente fine alla sua vita compiendo seppuku, dopo avere inutilmente spronato alla ribellione la guarnigione di Ichigatani.
Nel Proclama letto pochi istanti prima della fine, egli sottolineava i motivi del suo gesto:
“Abbiamo veduto il Giappone del dopoguerra rinnegare, per l’ossessione della prosperità economica, i suoi stessi fondamenti, perdere lo spirito nazionale, correre verso il nuovo senza volgersi alla tradizione, piombare in una utilitaristica ipocrisia (…) Avete tanto cara la vita da sacrificarle l’esistenza dello spirito ? Che sorta di esercito è mai questo, che non concepisce valore più nobile della vita ? Noi ora testimonieremo a tutti voi l’esistenza di un valore più alto del rispetto per la vita. Questo valore non è la libertà, non è la democrazia. E’ il Giappone”.
La lezione della vita e dell’intera opera di Mishima si compendia nell’irriducibile e completo rifiuto dell’americanizzazione/occidentalizzazione del mondo, a partire naturalmente dal Giappone.
Non è tanto o soltanto una prospettiva politica: in un’intervista concessa proprio nel 1970 l’autore del Mare della fertilità affermava: “Io sono ancora antipolitico: quello che voglio fare ora è un movimento per la giustizia”; ancora un antipolitico: e pensava evidentemente alla “politica politicante”, alle false dicotomie del tipo destra/sinistra che il Giappone aveva importato dal mondo occidentale.
Egli perseguiva invece, prima di tutto, una disciplina antropologica inattuale, che combina armonicamente corpo, anima e spirito contro la dissociazione e la frammentazione moderna: la pratica del kendo, magistralmente esposta in Cavalli in fuga, e quella della cultura del corpo di Sole e acciaio ne sono due esempi, fra i tanti disponibili nella sua opera.
Il mondo americano-occidentale della globalizzazione è unidimensionale, meramente orizzontale, non riconosce il valore complesso e profondo della personalità umana – non comprende cosa sia il Sacro, e come il corpo stesso possa essere funzionale a una realizzazione spirituale.
“Il linguaggio della carne è la vera antitesi delle parole”, afferma in Sole e acciaio. Non è un’espressione retorica, è necessario uscire dagli schemi mentali ed esistenziali consueti.
Tutto in Mishima è funzionale alla ricerca dell’Assoluto, anche l’erotismo, “metodo per raggiungere la divinità attraverso il peccato”, anche l’amore, nella sua accezione più vera: “L’amore non può esistere in una società moderna. Se non interviene l’immagine di una terza figura in comune, ossia il vertice del triangolo, l’amore sfocia in perpetuo scetticismo”, ossia nell’agnosticismo.
L’Assoluto è rappresentato dall’Imperatore, la modernità è relativista.
La cultura, che nel Paese del Sol Levante è innanzitutto forma e stile di vita, “favorisce il carattere di continuità e di ritorno, ed è proprio questo che chiamiamo Tradizione” (Saggio in difesa della cultura, 1969). Mishima è estraneo a infatuazioni di tipo ideologico, ed è questo un altro tratto differenziale dal nostro Occidente moderno; è, piuttosto, preideologico, e ostile alla globalizzazione del pensiero: “L’idea astratta di una cultura universale, di una cultura del genere umano, è per lo meno contestabile”.
D’altra parte, la cultura per essere tale deve essere vissuta, “abbraccia tanto le opere d’arte quanto le azioni e i modelli dell’agire”: una cultura integrale.
Il nostro occhio si è fatto grezzo, quello di Mishima è un occhio totale, che esplora e illumina corrispondenze e sovrapposizioni, che rende un senso alle molteplici esperienze umane.
Il mondo della Bellezza senza scopo utilitario e quello della giovinezza che è ingenuità disinteressata e può protrarsi nel tempo – quando è incurante del tempo – sono colti nella loro valenza essenziale. L’equivoco che attanaglia l’Occidente è quello della modernità, nell’epoca dell’individualismo borghese e della predazione capitalista.
“Quanto più una nazione tende a modernizzarsi, tanto più i rapporti individuali diventano freddi e anonimi, perdono significato”, sottolineava Mishima in un’intervista del 1968.
La modernità è sterile, bandisce il sacrificio e il senso di responsabilità per seguire la moda, il facile, il provvisorio. I rapporti personali, invece, acquistano significato e verità solo quando si consacrano a valori o sentimenti che trascendono i frammenti di vita individuale.
“Non importa cadere.
Prima di tutto.
Prima di tutti.
E’ proprio del fior di ciliegio
cadere nobilmente
in una notte di tempesta”
Sono versi di Mishima che sarebbe facile ricondurre a un malinteso e umbratile “culto della morte”, e che invece rappresentano la serenità del samurai di fronte alla conclusione della pagina terrena: vita e morte vanno rispettate ma non messe parossisticamente al di sopra di tutto, vanno accettate per quello che sono e non sprecate, utilizzate nobilmente … in vista dell’Assoluto.
Una dimensione, questa, spesso incompresa e – come si accennava all’inizio – irriducibile all’ideologia occidentale, quale irradiatasi dagli Stati Uniti d’America all’intero pianeta e diventata quotidiana banalità ai nostri giorni.
Mishima – che nella sua vita fu, a più riprese, esploratore/viaggiatore aperto al mondo – rispettava e distingueva nettamente le altre civiltà dalle loro contraffazioni artificiali imposte dalla globalizzazione. L’Europa, ad esempio, è altro rispetto alla sua contraffazione moderna : “La mia Europa è un mondo basato sulla struttura. Una struttura architettonica, ad archi. L’arco è stato inventato in Europa. La metà di un arco non può reggersi da sola, la metà sinistra regge la destra mantenendo un saldo equilibrio. I miei drammi e i miei romanzi sono proprio così, sostenuti da una struttura ad archi”.
Costruire questa struttura, ricostituire l’armonia fra sé e il mondo. Per tutta la vita Yukio Mishima ha operato con questo intendimento, non solo nella sua straordinaria opera letteraria ma anche nel suo cammino esistenziale.
Il 25 novembre 1970 decise che l’equilibrio era stato raggiunto. “La vita è così breve, e io vorrei viverla per sempre”, aveva detto sorridendo – ma, oltre la vita, aveva rimosso il limite, e trovato l’Assoluto.