Per alcuni è una nuova speranza. Per altri, la catastrofe delle catastrofi. Per molti, un grosso punto interrogativo.
Benché se ne parli poco, il cammino italiano verso le nuove centrali nucleari sembra fare passi in avanti. A dare un’occhiata agli studi NEA- IEA, sembra che con l’energia nucleare si possa dare una risposta a molti problemi. Di sicurezza energetica, tanto per fare un esempio. Ma anche ambientali: senza combustione fossile e senza CO2, il clima globale è salvo. Per non parlare dei risparmi sulla bolletta.
Ma esistono anche pareri contrari: troppi rischi in cambio di pochi benefici. Proprio in questi giorni, l’uscita di un volume di Alberto Clo, aggiunge un contributo autorevole al dibattito.
Un nuovo dubbio, dunque. Chi ha ragione?
Gli studi delle agenzie internazionali cercano di definire i contorni di questo controverso dibattito attraverso uno studio comparato delle varie tecnologie. La comparazione copre un ampio spettro di problematiche, dall’ambientale al sociale. Esperimenti di questo tipo hanno una rilevanza soprattutto metodologica, mentre i dati tendono a mettere in ombra le specificità nazionali.
L’esperienza nucleare italiana si è chiusa da più di vent’anni. Perché tornare indietro?
E soprattutto, perché farlo proprio nel momento in cui la tecnologia permette di sfruttare l’energia solare ed eolica? Non sarebbe meglio dirigersi verso una produzione decentrata?
I problemi preesistenti
Cerchiamo di capire anzitutto in che contesto ci muoviamo.
Le fonti da cui è possibile ricavare elettricità sono raggruppabili in tre tipi: fonti fossili, generazione elettronucleare, fonti rinnovabili. Fra i sistemi a combustione fossile, le materie prime maggiormente utilizzate nel mondo sono il carbone ed il gas, mentre l’utilizzo del petrolio è concentrato nel settore dei trasporti. Gli altri due tipi di fonti trovano in genere un utilizzo marginale, con forti differenze da Paese a Paese.
La prima differenza fra il sistema italiano e quello dei principali Paesi Europei risiede proprio nel mix di fonti fossili. In particolare, il contributo degli impianti a carbone sul totale dell’ elettricità generata risulta assai ridotto: in media, i Paesi europei fanno ricorso a questa materia prima per circa il 28% della produzione, l’Italia solo per il 14%. Al contrario, la produzione da gas nel nostro Paese supera la media europea di più di 30 punti percentuali. Lo stesso si può affermare rispetto alla generazione da petrolio: il 15% italiano contro il 4% europeo (1).
Queste caratteristiche possono essere facilmente spiegate guardando alla storia: l’utilizzo ancora relativamente alto della combustione del petrolio è erede delle scelte operate a cavallo degli anni Sessanta, periodo i cui massicci investimenti confluirono proprio su queste tecnologie. Nel 1991, le conseguenze di queste scelte erano ancora evidenti: circa il 47% della produzione avveniva per mezzo del petrolio, il 16% per mezzo della combustione da gas, mentre il restante 37% era costituito da energia idroelettrica e combustione di carbone, con una netta preponderanza del primo sul secondo (2). Una situazione completamente ribaltata rispetto al quadro europeo: il carbone e il nucleare pesavano per circa il 70% della produzione, lasciando a petrolio e gas una quota assai modesta (3). Quando il costo del greggio rese impossibile proseguire su questa strada, si intervenne riconvertendo la produzione sull’utilizzo del gas.
Questo squilibrio si unisce ad una generale necessità di modernizzazione degli impianti. La tabella 1 può fornire un’idea delle differenze, in termini di costi di produzione, tra l’Italia ed il resto d’Europa (4).
Figura 1. Generazione elettrica per fonte al 2005 – Italia ed Europa
Fonte: ENEA (2008)
Le conseguenze non sono solo di tipo economico: bisogna infatti ammettere che una produzione basata quasi esclusivamente sulla combustione degli idrocarburi, si scontra con gli impegni assunti dal nostro Paese in seno al Protocollo di Kyoto. Diversi studiosi (5) hanno espresso perplessità circa la possibilità che lo Stato Italiano riesca a mantenere gli impegni presi in termini di riduzione delle emissioni.
Un punto a favore del sistema italiano si riscontra nel caso delle fonti rinnovabili, che contano per circa il 17%, circa tre punti percentuali in più di quanto accade nel resto d’Europa. Questa superiorità deriva dalla grande espansione del settore idroelettrico (6), rispetto al quale il nostro Paese si trova in una situazione di vantaggio naturale. Secondo studi del settore, questa risorsa è attualmente al massimo del suo possibile sfruttamento.
Al contrario, al grande vantaggio potenziale offerto dal nostro clima non corrisponde un’adeguata espansione del fotovoltaico. Un forte ritardo è riscontrato anche nel settore geotermico ed eolico (7).
Tabella 1. Prezzi dell’ energia elettrica per tipo di utenza al netto delle imposte (€/KWh)
Utenze domestiche | Utenze industriali | |
EU-27 | 0.1173 | 0.0820 |
EU-25 | 0.1183 | 0.0825 |
EU-15 | 0.1205 | 0.0837 |
Francia | 0.0921 | 0.0541 |
Germania | 0.1433 | 0.0946 |
Regno unito | 0.1254 | 0.0950 |
Italia | 0.1658 | 0.1027 |
Spagna | 0.1004 | 0.0810 |
Fonte: Eurostat
A completare il quadro della situazione italiana, occorre aggiungere un’altra caratteristica preoccupante, che normalmente viene indicata come “dipendenza dalle importazioni” (8). Con questa espressione ci si riferisce sia alle importazioni del prodotto finito (l’energia elettrica pronta per l’utilizzo) che alle importazioni delle materie prime che occorrono per produrlo. Quanto al prodotto finito, le importazioni costituiscono circa il 15% dei consumi. Una quota relativamente alta, ma è considerando entrambe le componenti che i dati si fanno veramente preoccupanti: il tasso di dipendenza per l’insieme del settore energetico, espresso come il rapporto fra importazioni nette e consumo interno lordo, si è stabilizzato nel 2006 all’88% (9).
La produzione nazionale di materie prime (soprattutto gas) riesce a coprire una quota sempre minore dei consumi; d’altra parte, l’avvio di nuove esplorazioni, nel breve periodo, non rappresenta una soluzione valida per via dei tempi troppo alti e dei costi troppo elevati (10).
I rischi derivanti da questa situazione sono essenzialmente di natura economica e geopolitica. Sotto il primo profilo, l’agganciamento del prezzo del gas a quello del petrolio comporta un’alta variabilità dei costi. Sotto il secondo, occorre rendersi conto dei rischi connessi all’instabilità politica dei Paesi che forniscono le materie prime, o ne permettono il passaggio sul proprio territorio. Considerazioni che dovrebbero ricordare quanto accaduto nel 2005 nel corso della crisi russo-ucraina. In quel caso, le variabili geopolitiche si unirono a dei deficit strutturali della rete di distribuzione del gas (un sistema di stoccaggio insufficiente).
Di fronte a questa situazione, la diversificazione delle fonti (e della loro provenienza) diventa un imperativo: quando il territorio nazionale non offre risorse sufficienti, questa è l’unica strategia possibile per “assicurarsi” da eventi negativi, siano essi relativi ad un’elevata dipendenza dall’estero o a prezzi estremamente variabili.
Si tratta di un mezzo valido anche ai fini degli impegni di Kyoto. Con un avvertimento: secondo gli studiosi dell’ENEA (11), l’intervento più importante in questo senso dovrebbe riguardare la razionalizzazione dei consumi, sia nel settore residenziale che nell’industria (interventi di riduzione della domanda).
Figura 2 Generazione elettrica per fonte
Fonte: Enerdata
Razionalizzare, quindi, e diversificare; ma in direzione di quale altra tecnologia?
Le fonti rinnovabili sono in parte una risposta valida in termini di rischi, costi, e abbattimento delle emissioni. Gli intenti dell’Enel (12), però, si focalizzano sulle nuove tecnologie basate sul carbone, più efficienti in termini di standard ambientali. Questo intervento dovrebbe collocarsi in una più ampia operazione di efficientizzazione degli impianti, ormai in gran parte obsoleti.
Si potrebbe concludere che il ritorno al nucleare faccia parte di questa strategia di riduzione dei rischi e dei costi. Prima di verificare la validità di questa affermazione, occorre tenere presente che i tempi di sviluppo e di apprendimento tipici di questa tecnologia sono piuttosto lunghi (13). Una soluzione, forse, ma non nel breve periodo.
Un confronto
La vera patata bollente, quando si parla di nucleare, è la questione dei costi.
Si sente spesso affermare che questa tecnologia sia più economica; il caso francese dovrebbe esserne un esempio. Affermazione non esente da critiche.
Se poi fra i costi aggiungiamo anche gli effetti ambientali e sulla salute umana, la questione si fa ancora più controversa.
Soffermiamoci sul profilo puramente economico. Per capire se veramente il nucleare è più competitivo rispetto alle altre tecnologie, occorrerebbe effettuare uno studio comparativo in cui si analizzano i costi di produzione di tutte le fonti, ripercorrendo lo schema proposto dall’ OECD.
In realtà, si può effettuare uno studio più circoscritto. Per capire perché, bisogna partire dall’analisi del fattore di disponibilità: questa variabile rappresenta il tempo massimo possibile di sfruttamento di un impianto. In altre parole, si tratta del rapporto fra il tempo in cui l’impianto può produrre energia ed il periodo di riferimento (14). Se, ad esempio, un impianto è attivo 12 ore al giorno, avremo un fattore di disponibilità del 50%. Normalmente il periodo che si prende per riferimento è un anno, cioè circa 8760 ore.
Il fattore di disponibilità di un impianto dipende soprattutto dal tipo di fonte energetica utilizzata, ma anche dagli interventi di manutenzione durante i quali l’impianto non è attivo.
Gli impianti nucleari, insieme agli gli impianti a carbone e a gas, possono raggiungere un fattore di disponibilità superiore all’80% (15). In tutti gli impianti che sfruttano fonti rinnovabili, invece, il funzionamento è subordinato alle condizioni atmosferico- meteorologiche ed alle condizioni del luogo. In particolare, il fattore di carico va in media dal 10 al 25% per gli impianti fotovoltaici e dal 15 al 45% per gli impianti eolici (16).
Figura 3. Range dei costi unitari per impianti a carbone, gas e nucleari
Fonte: NEA-IEA (2005)
Da questi dati si dovrebbe concludere che lo sfruttamento delle fonti rinnovabili, da solo, non possa soddisfare i nostri bisogni energetici, soprattutto se si pensa a quegli impianti produttivi (come le celle frigo) che hanno bisogno di un apporto energetico continuo.
Si tratta di un limite oggettivo, che però non implica affatto che queste fonti debbano essere abbandonate. Significa solo che le rinnovabili vanno affiancate da impianti che garantiscano la continuità della produzione. Resta da discutere sul quanto e sul come.
Concentriamoci quindi sul nucleare, confrontandolo con le tecnologie che presentano un fattore di disponibilità simile: gli impianti a carbone e a gas.
È vero che la produzione nucleare è più economica (17)? Stando agli studiosi dell’OECD, sì: il costo della produzione nucleare è mediamente allineato o più basso di quello della generazione da carbone, e mediamente più basso del costo della generazione da gas (figura 3).
Il costo è calcolato applicando un tasso di sconto del 5% su un periodo di vita degli impianti di 40 anni. Anche con un tasso del 10%, il nucleare sembra essere conveniente, ma in misura minore. In ogni caso, le esternalità derivanti dall’emissione di CO2 non sono incluse nel calcolo, ma si può immaginare che facciano aumentare ulteriormente il costo della produzione da fonti fossili.
Le obiezioni
Questi risultati, però, hanno lasciato perplessi molti studiosi.
La prima obiezione riguarda l’astrattezza dei risultati: questi studi si basano su stime di media, che non tengono conto delle specificità di ogni singolo caso. L’analisi, ad esempio, non copre i costi di trasmissione e distribuzione dell’energia.
Pur volendo tenere da parte questa considerazione, le differenze di costo fra un impianto e l’altro possono essere enormi, ed in particolare per il nucleare.
A questo proposito, in letteratura è stata proposta una distinzione fra specificità di Paese, di sito, di tecnologia, di impianto, di committente (18). La localizzazione del Paese, ad esempio, influisce sui costi di licensing (le norme di sicurezza possono essere più o meno severe, i processi di autorizzazione più o meno lunghi), oppure sul costo di progettazione, sulla manodopera e sulla produttività del lavoro. Per specificità tecnologica, invece, si intende generalmente tipologia di reattore (19). La specificità di impianto si riferisce a due componenti fondamentali: la taglia del reattore ed il numero di reattori per sito. Normalmente, infatti, un sito in cui siano presenti più reattori è meno costoso in termini di O&M, in quanto alcune facilities possono essere messe in comune. Per specificità di committente, infine, si intende la capacità del committente di gestire l’operazione, ad esempio nel programmare la costruzione dei reattori in modo da poter sfruttare l’esperienza acquisita di volta in volta. Si tratta di una variabile che incide in modo cruciale su tutte le altre, soprattutto in termini di esperienza acquisita. Difficile paragonare l’esperienza francese ad un caso come quello italiano, in cui l’acquisizione di conoscenze teoriche e tecniche in merito si è fermata più di vent’anni fa.
L’apporto del partner francese è quindi essenziale, a meno di non voler trasformare l’operazione nucleare italiana in un’odissea senza fine.
Ma alcune critiche sono state rivolte anche alla metodologia di calcolo utilizzata in seno all’OECD. Gli istituti più attivi in questo senso sono l’Università di Chicago ed il Massachussets Institute of Technology. Ad essere attaccate sono per lo più le ipotesi di base, giudicate irrealistiche o comunque incerte: ad esempio, nel caso del nucleare, il costo del capitale dovrebbe essere più alto di circa il 2% rispetto agli impianti convenzionali, poiché gli investimenti sono più rischiosi (20).
Le obiezioni più consistenti sono rivolte al metodo con cui vengono calcolati i costi di decommissioning (smaltimento definitivo dei rifiuti radioattivi e bonifica del sito). In genere, i costi relativi alla costruzione ed al funzionamento di una centrale elettrica vengono divisi in tre categorie (21): investimenti (relativi alla costruzione della centrale), costi di funzionamento e manutenzione, costi del combustibile. Quando si parla di nucleare, i costi di decommissioning vengono inseriti nella prima categoria. È proprio questa la principale fonte di preoccupazione degli esperti: non esistono dati certi in merito; le stime parlano di un costo che si aggira intorno al 5% del totale, ma l’elevata radioattività delle scorie, e i lunghissimi tempi di decadimento, fanno pensare ad una visione un po’ troppo ottimista.
In questo caso, oltre che un problema di costi, sorge anche l’interrogativo circa i danni all’ambiente e alla salute che potrebbero derivare da errori o incidenti in questa fase della produzione.
A questi, si aggiungono altri interrogativi: a quanto ammontano le riserve di uranio, e per quanto tempo saremo in grado di sfruttarle? Il mercato dell’uranio è più o meno concorrenziale rispetto a quello del carbone o del gas? Quali sono i rischi per la salute e per l’ambiente? Specie rispetto a quest’ultimo problema, le risposte delle agenzie internazionali sono ambigue: gli studi non sono di tipo statistico, ma teorico, in cui il nesso fra l’assorbimento di radiazioni ed il manifestarsi di alcune patologie non è assunto come certo.
Interpretare i risultati
Difficile, quindi, dare una risposta univoca. I suggerimenti provenienti da questa breve analisi dovrebbero mettere in guardia rispetto all’entusiasmo di chi vede nel ritorno al nucleare la soluzione finale a tutti i problemi italiani. Specie se questi problemi derivano da inefficienze che potrebbero essere risolte con interventi meno drastici, come sostituire gli impianti vecchi o stimolare un consumo più razionale.
Il ricorso a questo tipo di tecnologia permette sicuramente una più elevata diversificazione delle fonti, almeno nel lungo periodo. Sfortunatamente, la diversificazione non elimina la dipendenza, ma si limita a ridurre il rischio ad essa associato.
Più l’analisi si estende dalla dimensione economica a quella sociale e ambientale, meno diventa oggettiva. Il problema presenta numerose zone grigie, di fronte alle quali dire “sì” o “no” dipende soprattutto dalla personale propensione al rischio di ognuno.
La buona riuscita di un’operazione del genere, comunque, dipende in larga misura dalla qualità delle istituzioni, soprattutto nell’applicare regolamenti e controlli.
A tal proposito, un indicatore oggettivo è rappresentato dai sei indicatori di governance stabiliti dalla banca mondiale (Voice and Accountability, Political Stability and Absence of Violence, Government Effectiveness, Regulatory Quality, Rule of Law, Control of Corruption). Il punteggio va da un minimo d -2,5 ad un massimo di 2,5. I valori attribuiti all’Italia nel 2009 per sono riportati nella tabella sottostante. Ognuno tragga le conclusioni del caso.
Tabella 1. Indicatori di governance: punteggio italiano al 2009
Voice and Accountability |
Political Stability and Absence of Violence |
Government Effectiveness | Regulatory Quality | Rule of Law | Control of Corruption |
1,04 | 0,53 | 0,52 | 0,90 | 0,39 | 0,05 |
Fonte: World Bank
(1) ENEA (2007)
(2) Pinna (2007)
(3) Eurostat (2009)
(4) I dati qui riportati risentono dei costi di trasmissione e distribuzione.
(5) Menna e Conti (2006)
(6) www.autorita.energia.it
(7) Esposto (2008)
(8) ENEA (2008)
(9) Eurostat (2009). Secondo Enerdata, la media europea (EU-15) resta al di sotto del 60%.
(10) Menna (2006)
(11) ENEA (2008)
(12) Conti (2006)
(13) Vaccà, Zorzoli (2003)
(14) In realtà, il fattore (o coefficiente) di disponibilità è il rapporto tra la potenza installata Pi e la potenza che si ha disponibile in un determinato momento Pd; poniamo
Cd = Pd /Pi
Ovviamente Cd è quasi sempre minore di uno: la potenza disponibile è quasi sempre minore di quella installata, sia perché dipende dall’effettiva disponibilità della fonte primaria di energia, sia perché dipende dalla disponibilità dell’apparato di produzione.
(15) OECD (2007)
(16) Il fattore di disponibilità nel caso dell’idroelettrico dipende da due fattori: la localizzazione della centrale rispetto al corso d’acqua; la presenza di bacini di accumulo (dighe o serbatoi).
(17) Per le considerazioni relative alla volatilità dei prezzi dell’energia elettrica vedi anche articolo su Eurasia, “Uranio: il minerale della discordia” di Federica Nalli.
(18) De Paoli (2007)
(19) Esistono infatti tipi di reattore: ad acqua leggera (pressurizzata o bollente: Pressurized Water Reactor o Boling Water Reactor, i più comuni), ad acqua pesante, a grafite, o a neutroni veloci (quest’ultima poco utilizzata).
(20) De Paoli (2007)
(21) NEA – IEA (2005)
Bibliografia
S. Vaccà, G.B. Zorzoli (2003), È ancora possibile una cultura nucleare in Italia?, Economia delle fonti di energia e dell’ambiente, n 1-2, pagg 85-90
Projected Costs of Generating Electricity: Update 2005, OECD/IEA e NEA (2005), Parigi.
N. Cerullo, G. Lomonaco, V. Romanello, (2006), I veri costi dell’energia nucleare, Università di Pisa
F. Conti (2006), Problemi e prospettive dell’energia elettrica: diversificazione delle fonti, produzione e distribuzione, Economia Italiana, n 2, pagg 355-379.
L. Lerro (2006), La questione del nucleare in Italia, Economia Italiana, n. 2, pagg 381- 404
P. Menna (2006), L’Italia e l’energia: il problema del fabbisogno energetico, Economia Italiana, n.2 pagg 321-353
L. De Paoli (2007), Problemi e prospettive dell’energia nucleare nel mondo, Economia e politica industriale, n.3, pagg 27- 52
L. Pinna (2007), L’Italia a rischio: la breve parabola del nucleare nostrano, Limes, vol. 6, pagg 259-271
Rapporto Energia e Ambiente, ENEA (2007), Roma
Risks and benefits of Nuclear Energy, OECD (2007), Parigi
S. Esposto (2008), The possible role of nuclear energy in Italy, Energy Policy, vol. 36, n 5, pagg 1584- 1588.
B. Kruyt, D.P. van Vuuren, H.J.M. de Vries, H. Groenenberg (2009), Indicators for Energy Security, Energy Policy, n 37, Issue 6, pagg 2166-2181
Sitografia e siti utili
www.iea.org
www. europa.eu
http://info.worldbank.org/governance/wgi/index.asp
*Federica Nalli è dottoressa in Scienze Politiche (Università degli studi di Firenze)